Un giro di Sicilia con Vincenzo Florio
Tempo fa sono sceso a Palermo per andare a trovare un po’ di amici e riscoprire strade, storie e corse di Sicilia. Scendere a Palermo, per poi risalire a Roma e a Milano. In Sicilia non si usa dire vado a … ma salgo a … e poi magari riscendo. E in effetti si parte dal sud, da un’isola dove, come diceva Goethe, tutto è cominciato, e in genere, partendo, non si può che andare nel continente. Quindi si sale. Ma io, venendo da Roma, ovviamente sono sceso. E con piacere, perché qui io “m’arricrio”. Mi ricreo, riprendo cioè sopite energie, ritorno appunto dove tutto è cominciato, dove sono nati non solo i miei avi ma anche tante passioni.
E in aereo quindi si “scende” in quel sinistro aeroporto di Punta Raisi, adagiato tra mare e montagna, al quale sono purtroppo legati diversi e tragici episodi; dai vari e ancora inspiegati disastri aerei all’omicidio del giudice Falcone e della sua scorta. Proprio davanti quel bel mare limpido e azzurro le cui onde increspate di bianco accarezzano terre bagnate anche di sangue, fin dai tempi dei greci e dei cartaginesi.
Ma una volta atterrati l’aria quasi africana, ricca di profumi di mare e di zagara, ti fanno dimenticare tanti sinistri misfatti restituendoti ai miti e alle leggende di cui quest’isola è così feconda.
Nessuna regione fu mai tanto desiderata e contesa come la Sicilia che per la sua posizione geografica nonchè per la mitezza del clima e la fertilità del suolo rappresentava una magnifica terra di conquista e di … sollievo. Gli dei dell’Olimpo ne fecero alcova per i loro amori, gli eroi della mitologia terra per le loro gesta.
Palermo. Castello della Zisa (al aziza, la Splendida), sec. XIII°
Nel 1180 Jbn Jubayr, poeta e studioso musulmano residente in Spagna, reduce da un periglioso viaggio alla Mecca, si fermò naufrago in Sicilia, già divenuta cristiano normanna dopo un lungo dominio arabo, e qui … si arricreò anche lui riposandosi in “palazzi bianchi come colombe e spiagge fini come velluti”. Quasi 850 anni fa!
Vincenzo Florio invece, in tempi assai più recenti, si adoprò senza sosta per portare la sua terra nell’era moderna. Una terra un tempo così prodiga di leggende suggestive e di battaglie cruente, tra templi sontuosi e anfiteatri affascinanti, che giaceva ancora in un ozioso oblìo che ne aveva bloccato ogni progredire ancorandola a sistemi feudali ormai tramontati. Era nato un mondo nuovo risorto e trasformato dai prodigi presentati all’Esposizione Universale di Parigi del 1900, che fu visitata, pensate!, da ben 50 milioni di persone. 50 milioni, nel 1900!!. Un mondo moderno e rivoluzionario che vedeva l’arrivo non solo della luce elettrica ma anche delle macchine e delle industrie mentre in Sicilia si lavorava la terra ancora come ai tempi cantati da Omero! Un mondo nuovo e attivo che aveva anche scoperto, all’improvviso, la divinità che avrebbe rivoluzionato il nuovo secolo, subito adorata e inneggiata dai futuristi e dagli uomini d’azione. La Velocità.
Ed io volevo ripercorrere quegli antichi itinerari, quelli dei nuovi “gladiatori”, quelli che si sfidavano sulle strade delle Madonìe e non solo. Perché lì tutto era cominciato, nel 1906. E proprio dall’inizio volevo partire, dall’antico percorso, dal rettifilo cioè di Bonfornello, nei pressi di Cefalù, per tornare a … Bonfornello passando da Cerda, Caltavuturo, Petralia, Castelbuono, Isnello, Collesano, Campofelice. “Il Circuito delle Madonie”, quello che proprio nel 1906 vide la vittoria di Cagno con l’Itala che dopo aver visto il percorso sei mesi prima della Targa disse a Florio “verrò giù con una macchina che cascando da un terzo piano non si sfasci!”. Adoravo quel percorso dove passò tutto l’automobilismo di intere generazioni, volevo seguire e rivivere quelli che erano stati il sogno e l’opera sportiva di Vincenzo Florio con lo stesso suo spirito e il medesimo entusiasmo. Volevo percepire cioè le stesse emozioni che avevano provato quell’Uomo e quelli prima e dopo di Lui scoprendo che in quella regione non è poi affatto così difficile. In Sicilia passato, presente e futuro spesso si confondono e si integrano in una realtà quasi onirica in cui non ci si si smarrisce ma anzi ci si trova vigore e fantasia.
Palermo e la sua storica grandeur sono ormai avvilite da costruzioni lager anonime e immense tra cui affogano le bellezze e le glorie di cui questa magnifica città fu tanto ricca. Non si riesce a capire come da tanto splendore, pur se limitato al centro storico, si sia in pochi anni giunti a tanto degrado. Già entrando nei portoni dei numerosi, vetusti e blasonati palazzi che si celano tra le vie anche anguste della città vieni attratto da quella che era la vita di corte dal Regno delle Due Sicilie, fino ad arrivare, vagando nel tempo, ai dimenticati ozi colti e raffinati dei sovrani bizantini e arabi. Furono proprio i Florio, da metà ottocento, a restituire e riportare a Palermo lo splendore e il prestigio dei tempi che furono.
Palermo, Villa Florio 1925. Il Kaiser Guglielmo II°, Franca Florio e l’Imperatrice. Terrazza Villa Igea, 1909. I reali d’Inghilterra.
Tonino Zito negli anni ‘50 era un giovane e inesperto giornalista siciliano che il suo direttore spedì vilmente a Cerda per fare un servizio sulla Targa. Lo sprovveduto giornalista vide a Floriopoli, in mezzo alla folla, un vecchio signore in bretelle e paglietta che parlava con tutti e sembrava conoscer tutti e gli chiese ingenuamente informazioni. Il vecchio gli rispose: “abiti a Palermo?” e a un suo cenno di assenso gli mise una mano sulla spalla e disse: “ragazzo apri gli occhi; a Palermo vi sono il Teatro Massimo e Vincenzo Florio. Ecco, io sono Vincenzo Florio”. Altri tempi e altri Uomini, è vero; ma io che ne ero stato sempre affascinato volevo entrare nel Suo sogno e far mio il Suo progetto attenuando magari in questo modo lo sconforto della decadenza in cui oggi si è ritornati.
Sono viaggi da far da soli questi o con chi, nel silenzio, queste sensazioni le intuisce o le percepisce accompagnati non dallo scalpitio del cavallo ma dal brontolio del motore e dal frusciare delle gomme sulle strade della storia. Come quando si va in Egitto e ci si aggira fra millenari sepolcri, sotto le ombre lunghe delle piramidi e lo scorrere lento del Nilo o fra le pietre e gli olivi della Grecia, di cui la Sicilia fu figlia.
M. Toquoy, 1928. Alta moda alla Targa Florio.
Fuori dal caos confuso di Palermo, che pur animò la nostra storia ma ne smarrì lo spirito, già si sente che fra quei monti lontani e sotto di essi si cela la culla di ogni mito. Quando si arriva a Floriopoli, poco prima di Cerda, e si passa sotto i vecchi e canuti impianti abbandonati dove un tempo si accordavano concerti di motori e si affollavano migliaia di persone che trasformavano questo luogo, sacro per gli appassionati della Targa, in una grande festa, ci si trova d’improvviso in uno scenario favoloso. Come fra le tante rovine, di cui la Sicilia è così ricca; come in un grande teatro greco dove natura, paesaggio, storia, arte, sport e persino mitologia si confondono e rivivono.
E qui l’automobile, oggi protagonista del viver quotidiano, ha costruito buona parte della sua storia e della sua leggenda contribuendo non poco allo sviluppo di questa terra. Nessuno seppe mai contare le curve, quasi tutte insidiose, che per circa 80 Km (all’inizio erano circa 150!) di salite impervie e discese vertiginose vanno dal livello del mare fino a 1200 metri in mezzo a panorami mozzafiato che ininterrottamente si alternano tra cielo, mare e montagne ornate da olivi e ginestre, in un profumo soffuso e delicato di agrumi.
Quella delle Madonie era però una gara assai impegnativa riservata quindi a case ufficiali e a piloti d’esperienza molto utile per lo sport e l’immagine ma assai poco per “l’utilità pratica che l’automobile poteva arrecare agli uomini che lavorano e ai mutamenti che essa poteva introdurre nelle campagne e nei piccoli centri urbani privi di mezzi di viaggio e comunicazione moderni” (V. Florio). Occorreva pertanto organizzare qualcosa di diverso e più diffuso lungo le strade dell’intera isola. Florio s’inventò e organizzò così il Giro di Sicilia la cui prima edizione si svolse nel 1912 con la partecipazione persino di alcune Case americane, la Overland e la Ford.
E fu iscritta anche una … Florio. Don Vicenzo, cui disponibilità e spirito creativo certo non mancavano, finanziò infatti il pilota-costruttore torinese Cravero per costruire una vettura con il suo nome e poi avviarne una produzione. La direzione commerciale, udite! udite!, fu affidata a un giovane ancora poco noto ma assai brillante, tale … Vittorio Valletta destinato trenta anni dopo a divenire il numero uno della Fiat. Il Giro era veramente affascinante, si snodava tra coste e mari della Sicilia e tale io volli ripercorrerlo. Scendendo infatti dalle Madonie verso Cefalù, lungo la tortuosa strada statale oggi ben asfaltata, trafficata e molto “abitata”, fuori però da ogni autostrada che nulla concede ai sogni e alle emozioni, come non fermarsi davanti al Duomo per avere una benedizione nell’abside dal bizantino Cristo Pancreator e un abbraccio dall’amico Ciccio Liberto, lo scarparo più famoso del mondo, quello che ha messo ai piedi dei piloti più illustri le scarpe più “veloci”. E poi via per attraversare Santo Stefano di Camastra tra multiformi ceramiche che richiamano colori e folklore di Sicilia. L’orario impone però una nuova sosta per un pranzo con Domenico Fratantoni, artista e custode delle più antiche e prestigiose tradizioni ceramiste. E poi giù verso Capo d’Orlando per un’altra sosta nella villa che fu di Lucio Piccolo, barone di Calanovella, scrittore e poeta nonché cugino di Giuseppe Tomasi di Lampedusa che in quella villa, suggestiva e romantica, oggi sede di un interessante museo di leggiadre memorie e del liberty più puro, scrisse buona parte del Gattopardo. Uscendo con un velo di nostalgia da quella dimora, un tempo così ricca di cultura e di speranza, come non sostare sulla vecchia panchina sotto l’immenso e centenario albero che vide nascere le gesta del principe di Salina, vicino alle piccole lapidi sotto cui riposano i numerosi cani, amici fedeli di Lucio Piccolo e di Giuseppe Tomasi.
Ma a questo punto non avevo più voglia di continuare sulla strada statale ormai turbata da un gran traffico e da gente ignara di quanto là intorno fosse avvenuto, sin dai tempi dei greci. Quelli che con Dioniso, tiranno di Siracusa, fondarono Tindari, arrampicata lassù a scrutare sul mare lo spuntare delle vele nere dei turchi; lo stesso mare che dall’Oriente portò su quelle rive la statua della Madonna Nera: “nigra sum sed formosa”. Salvatore Quasimodo scriveva commosso: “Tindari, mite ti so fra larghi colli pensile sull’acque dell’isole dolci del dio, oggi m’assali e ti chini in cuore….” ammirando da sotto il Santuario le Isole Eolie e il fumo di Stromboli. Io mi perdo sempre tra le tante emozioni che spuntan fuori da ogni angolo di Sicilia; ogni pietra ne racconta storie e leggende, ogni viso ne riporta la conoscenza del tempo. E quasi mi sembra di averli vissuti quei tempi, testimone di complicati amori divini e di battaglie di uomini per la conquista di terre tanto ricche di vita e di passione.
Proseguendo verso Messina, ahimè sull’autostrada, hai almeno il piacere di vedere alla tua sinistra e lungo brevi tratti il periglioso stretto di mare ove spesso la furia di Scilla e Cariddi inghiottiva i naviganti ignari. E arrivando a Taormina pensavo alla marchesa Adriana Bosurgi che nel 1904 con la sua Oldsmobile Curved Dash si recava da Messina a Isola Bella, un incanto sul mare che suo figlio Emilio e sua nuora Elke trasformarono negli anni ‘70/’80 nel centro più affascinante ed esclusivo dell’isola per ospitalità e mondanità.
Si, lo so, non era certo il percorso di Florio e del suo Giro ma so anche che Lui non me ne vorrà, anzi sosteneva che “la storia e le storie della sua Targa saranno fatte da qualche storico appassionato vendemmiando nei miei ricordi e nella mia memoria” (V. Florio, 1950). La sua era una “cursa” vera, la mia un lento vagare tra storia e leggenda, tra ricordi e passioni. Per sognare ancora e non dimenticare. In fondo lo aveva fatto anche Lui.
Da Taormina ecco poi scorrere i paesi cari a Verga e a Brancati con gli enormi massi neri di lava a svettare sul mare di Acitrezza lanciati lì dal povero Polifemo piuttosto seccato per essere stato accecato da Ulisse. Un’altra sosta a Catania per una veloce granita in via Etnea insieme a un vecchio amico di famiglia che da poco non c’è più, il caro Ernesto “Tuccio” Fecarotta nella sua storica, suggestiva e aristocratica gioielleria salotto. A Siracusa invece, dopo il doveroso periplo di Ortigia, un veloce passaggio a quello che fu il circuito che regalò tante vittorie assolute a Vito Coco con la sua Alfa Romeo Giulietta SZ nel 1962 e a Jhon Surtess e Lorenzo Bandini con la Ferrari nel 1964.
Da Siracusa ho voluto proseguire verso Noto e Capo Passero, oltre la metà del mio giro di Sicilia, sempre lungo le sue coste e i suoi mari. Ed ecco scorrere il più affascinante barocco siciliano, in contrasto violentissimo ma suggestivo con l’essenziale pietra bianca dei templi greci e gli ornati orpelli settecenteschi corrosi dal sole. Qui si impone un’altra deviazione verso Marzamemi e Portopalo tra antiche ciminiere di tonnare abbandonate e un mare incantevole dal quale Paolo Campisi ha fatto sue le tradizioni dei leggendari pescatori locali; fino all’Isola delle Correnti, il punto più estremo d’Italia, 40 chilometri più a sud di Tunisi! E poi lo sfarzo barocco di Ibla, la vecchia piccola Ragusa sopravvissuta a intemperie e terremoti forse grazie alle sue 50 chiese, dove seduto al bar con brioche e granita incontrai anche il bravo commissario Montalbano tanto caro ad Andrea Camilleri, in sicula pausa dalle sue locali fatiche cinematografiche.
E poi via, lungo quelle coste sabbiose dove approdarono greci, cartaginesi, pirati fenici, arabi …. e gli americani di Patton! Fino ad Agrigento, “la più bella città dei mortali, diceva Pindaro, dove il cielo è sempre blu”. Anche qui non si può passare indifferenti con la valle dei templi che ti sovrasta e coinvolge. Il viandante, quale io ero, trovava riposo e conforto nell’oblìo del Giardino di Kolymbethra, a pochi passi dal Tempio della Concordia, sotto alberi antichi dove 2500 anni fa il tiranno Tirone purificò il suo corpo e il suo spirito, dopo la sanguinosa battaglia di Himera, nella immensa piscina alimentata ”dalle acque Feaci, vivaio di ricercata flora e animali selvatici” (Diodoro Siculo, I° sec. a.C.).
Ma a me bastò una semplice caponatina con un pezzo di “tuma”, quel magnifico e tenero formaggio di pecora un po’ pepato che insieme ad una fetta di pane di campagna e poche olive rende sazio e felice ogni viaggiatore, sin dai tempi di Ulisse.
I piloti invece che si cimentavano in questa gara di durata, come in tante altre dove fermarsi significava perder tempo e posizioni, andavano a panini rinsecchiti e vino (in abbondanza), basta ricordare Bracco che mentre guidava se la cantava pure a squarciagola. I bisogni liquidi si effettuavano, a turno, nel fiasco vuoto o nel thermos del caffè. ingombri che poi venivano lanciati in corsa dal finestrino! Così mi raccontavano sia il vecchio collaudatore dell’Alfa Consalvo Sanesi che i due fratelli romani Franco e Mario Bornigia, vincitori del 10° Giro di Sicilia nel 1950 con l’Alfa 6C 2500 Competizione e futuri fondatori della mitica discoteca Piper di Roma.
E il mio giro continuò lungo il mare e le spiagge su cui sempre, fin dalla notte dei tempi, approdarono i naviganti delle varie civiltà che si affacciavano sul Mediterraneo fondando città ricche e bellissime, oggi rovine sontuose e affascinanti, da Eraclea Minoia a Selinunte. E poi Marsala, l’antica Lilybaeum, nelle cui acque fu combattuta una battaglia navale nella prima guerra punica (240 a.C.) e dove il grande Cicerone fu questore nel 70 a.C. Ma anche dove, ahinoi!, nel 1860 sbarcò Garibaldi con i suoi Mille “per fare l’Italia” e riempirne ogni piazza dei suoi busti o di monumenti a cavallo, in quei comuni che avevano più soldi o vie da intestargli.
Dopo pochi chilometri da Marsala, uscendo ovviamente dalle strade statali, si arriva allo Stagnone un’altra perla costiera di questa incredibile terra, una vasta distesa di saline alla cui estremità, circondata da cumuli bianchi di sale, l’isola di Mozia, già colonia fenicia, ne fece fonte dei suoi commerci, sin dal VIII° sec. a.C. Ma quel benessere fece tanta gola ai greci di Sicilia e ai cartaginesi da finire rasa al suolo e abbandonata per secoli finchè ai primi del ‘900 un ricco mercante di vino di Marsala, Joseph Whitaker, concorrente dei Florio e appassionato di archeologia, ne fece la sua dimora e il suo museo personale. Un vecchio barcaiolo rugoso, annerito dal sole e dal fumo, per poche lire mi portò all’isola raccontandomene storie e leggende senza abbandonare il suo mezzo sigaro a penzoloni dalle labbra. Seduti sotto un olivo centenario navigai con lui e i suoi racconti su quelle acque trasparenti e calme scorgendo nel sogno bagliori di spade e luccichii di scudi, lunghe navi scure dalle vele colorate a lanciarsi palle di fuoco e frecce incendiarie. Quegli antichi guerrieri sono ancora lì ad aggirarsi smarriti fra rovine sparse ovunque e sepolcri dimenticati.
Avevo detto sin dall’inizio che il mio non sarebbe stato un Giro di Sicilia fedele al tracciato di Vincenzo Florio; io volli andare dove mi portavano il cuore e la sete di rivedere, anzi rivivere le emozioni e le sensazioni di quelli prima di noi sempre però accarezzando le coste e i mari dell’isola; lì dove giunsero i naviganti del tempo alla scoperta di una nuova terra e di un nuovo vivere. Avvertivo quindi una necessità interiore di deviare ogni tanto il mio “giro” per non tralasciare luoghi particolari, come Segesta ed Erice, simboli illustri di grandezza ma anche di sacralità e umanità. Segesta, splendida e ricca città, operosa sin da mille anni prima di Cristo, nemica di Selinunte e alleata di Roma nelle guerre puniche, afflitta da continue battaglie, finanche con i garibaldini a Calatafimi! Scendendo dal Tempio di Dioniso sentivo l’obbligo, per mia intima devozione, di visitare anche quel tempio in cima ad Erice che tanto sollievo arrecò agli avventurieri di ogni epoca dedicato a Venere Ericina. Tra le sue colonne e nei suoi recessi, sin da 1500 anni prima del Cristo, venivano allevate colombe bianchissime che onoravano la dea del piacere e imponevano la sacralità della prostituzione per offrire conforto e amore ad ogni viandante. Persino Enea, profugo da Troia (omen nomen), si compiacque di ritemprarvi a lungo il suo spirito per nulla affaticato dopo gli amplessi con Didone a Cartagine; e ci portò anche suo padre, il curvo e vecchio Anchise, che però di piacere ne morì e proprio lì sotto fu sepolto, poco oltre Trapani. Un cippo ne ricorda la tomba ed io vi deposi un fiore. Via quindi verso la Riserva dello Zingaro, quale appunto allora mi sentivo, dalle grotte di Custonaci fino alle bianchissime spiagge di San Vito lo Capo e Scopello.
Un Giro davvero affascinante in una terra che ancora conserva intatti i suoi simboli e le sue tradizioni; ne avevo toccato le sue punte estreme: Capo Passero, Capo Lilibeo e Capo Peloro le tre cuspidi della Trinacria. Era ora di rientrare a Palermo ma questo viaggio nel tempo e nella storia non poteva che concludersi in Casa Florio ai Quattro Pizzi, la splendida dimora sul mare, all’Arenella, che raccoglie le memorie di Vincenzo Florio e di sua moglie Lucie Henry, dalla cui figlia nacque Cecè Paladino, nipote amatissimo subito adottato da Vincenzo e futuro marito di Silvana. Andai a pranzo da loro insieme a una indimenticata amica, Elvira Sellerio, donna coltissima e brillante, titolare di una casa editrice che pubblicò le opere di tanti illustri siciliani tra cui Leonardo Sciascia e Andrea Camilleri. Il pranzo fu, come sempre, tipicamente palermitano con panelle, timballo di anellini e cannolo di ricotta finale, una leccornia, ma fu l’aria che si creò intorno a noi a rendere quei momenti struggenti e indimenticabili; quegli ambienti così carichi di memorie, di oggetti, dei quadri naif di Vincenzo Florio, di gesti e parole pieni di affetto ed amicizia hanno arricchito il mio cuore e la mia vita. Non eravamo noi soli a parlare e ricordare, c’erano anche loro, quelli che avevano fatto e vissuto queste storie, lì a volteggiare e sussurrare nella animata dimora felici di continuare a vivere.
Stefano d’Amico
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