Un po’ di storia Alfa Romeo,
ex azienda del Gruppo IRI-Finmeccanica
(abstract da Istituto Enciclopedia Treccani, Amatori, Pozzi, d’Amico)
Una storia italiana quella dell’Alfa Romeo, interessante ma negli ultimi anni assai triste, simile a quelle recenti di tante altre nostre belle aziende definitivamente chiuse o passate in altre mani, quasi tutte straniere; aziende fatte per lo più da uomini semplici che pur hanno fatto imprese eccezionali, aziende che un tempo hanno reso illustre il nostro paese per capacità, genialità, imprenditoria, stile e cultura.
Illustre e tra i primi al mondo nel saper fare e nel saper gestire, elementi questi basati su passati e collaudati modelli economici e industriali, presi poi persino ad esempio da altri paesi, che hanno portato l’Italia, particolarmente nel dopoguerra, ad eccellere in ogni campo. Politiche nostrane, miopi e sterili, dissennate e litigiose, hanno sempre condotto alla decadenza e a un crescente impoverimento sociale e culturale, quello che purtroppo stiamo oggi vivendo nell’ambito di un’Europa che tutto è meno che unita e lungimirante.
Questo che vogliamo ricordare è un pezzo di storia assai importante del nostro paese, quello con uno Stato ancora forte e capace, in grado di animare e tutelare il saper fare italiano nonché la nostra economia pur nelle intricate vicende che lo hanno accompagnato nell’ultimo mezzo secolo.
L’Alfa Romeo e le grandi reti
L’Alfa Romeo di Giuseppe Luraghi
“L’innovazione all’interno dell’IRI negli anni Cinquanta appare pervasiva. Riguarda anche un’azienda come l’Alfa Romeo, che applica tecnologie e design originali per trasferire nelle vetture di gran turismo i risultati ottenuti nelle competizioni sportive.
L’Alfa Romeo, che era parte dell’Istituto fin dalla sua nascita, nel 1933, usciva dalla guerra in condizioni peggiori rispetto alle altre case automobilistiche. Il 60% degli impianti era distrutto, l’indirizzo produttivo completamente da riconsiderare a causa della fine delle commesse statali e dello smantellamento – imposto dagli alleati – dell’industria aeronautica, settore a cui la società aveva dedicato ingenti risorse. In discussione era la sua stessa esistenza, considerato l’incerto futuro dell’IRI, dal quale era stata ‘salvata’. Nel 1945, l’unico l’elemento di forza appariva la coesione fra il vertice aziendale, i lavoratori e le loro organizzazioni, dovuta al passato antifascista di Pasquale Gallo, designato dal Comitato di Liberazione Nazionale (CNL) quale commissario straordinario. Ma contavano, soprattutto, l’orgoglio professionale e lo speciale spirito di ‘appartenenza’ di tecnici e operai. Pur di sopravvivere, si decise di fabbricare cucine economiche, mobili, infissi metallici, respingenti per i cavi ferroviari, fino al 1947, quando fu possibile riprendere la produzione di veicoli industriali e di vetture di grossa cilindrata (NdR. vetture frutto di progetti vecchi e rimasugli di materiali e di vetture anteguerra aggiornati e rivitalizzati)”.
La svolta si verificò nel 1948, con la nascita della finanziaria dell’IRI destinata a raggruppare le partecipazioni pubbliche dell’industria meccanica (Finmeccanica): questo rendeva stabile l’assetto azionario e consentiva al gruppo dirigente, rinvigorito dall’arrivo a capo della progettazione di Orazio Satta Puliga (1910-1974), di dare inizio al tentativo di passaggio, pur nel solco della ‘tradizione Alfa Romeo’, a una produzione di dimensioni industriali. L’esito, due anni dopo, era l’uscita di una 4 cilindri di 1884 cm3 a carrozzeria portante, in grado di raggiungere i 150 km orari: la 1900, di cui fra il 1950 e il 1959 verranno costruiti 21.000 esemplari. Per la nuova macchina venne utilizzata una catena di montaggio ‘parziale’; nonostante ciò, il tempo necessario a produrre una vettura scese da 1080 ore nel 1951 a 518 nel 1954. L’impresa voleva dare di sé una nuova immagine: «oggi, al di là dei cancelli, non si parla di corse, non si parla di piloti; il lavoro e lo studio hanno assorbito ogni sforzo, l’Alfa Romeo ha compiuto il salto nel mondo industriale» (Franco Amatori 1996, pp. 148-49).
“La società del Portello non abbandonerà più l’indirizzo inaugurato con l’uscita della 1900, tendente a conferire definitivamente una dimensione industriale alla sua produzione automobilistica: era una politica fortemente sostenuta dal direttore generale della Finmeccanica, Giuseppe Luraghi (1905-1991), che nel 1960 assunse la massima carica aziendale, ed era rafforzata dall’arrivo di agguerriti manager, come Franco Quaroni (1908-1990), proveniente dalla Pirelli, posto a capo del settore commerciale, e Rudolf Hruska (1915-1995), già impegnato alla Porsche, che dirigerà lo stabilimento del Portello” (Daniele Pozzi, “Giuseppe Luraghi, una sfida al capitalismo italiano. Venezia 2012”).
“L’Alfa Romeo, pur nell’ambito di una strategia di differenziazione, che si riallacciava alla sua tradizione agonistica, ricercava ora i grandi numeri. Nel 1954 realizzava, addirittura, un prototipo di berlina con un motore da 900 cm3); le risorse tecniche dell’azienda, tuttavia, ne sconsigliarono la produzione su vasta scala. (NdR. Successe ben altro. Il progetto, di notevole interesse e contenuti, fu poi ceduto alla Renault a causa di forti pressioni sul Governo da parte di Fiat che vedeva invaso il proprio mercato fatto ormai di vetture di piccola cilindrata e basso costo). Nello stesso anno, il tentativo era coronato da successo con la Giulietta, di media cilindrata (1290 cm3), un classico esempio di vettura da turismo con caratteristiche sportive che s’impose anche sui mercati esteri e che, primo modello dell’Alfa, venne costruita in più di 100.000 unità (precisamente 177.688), sino al 1965 (NdR. Pensate un po’ se l’Alfa non era capace di produrre su vasta scala!). Ancora maggior fortuna toccò alla Giulia, di 1570 cm3 di cilindrata quando venne presentata nel 1962, successivamente fu prodotta in diverse versioni per più di un milione di esemplari, sino al 1976. A partire dal 1964, della Giulia vennero preparati a Milano (al Portello) solo i gruppi meccanici; il resto del processo produttivo si svolgeva nel nuovo stabilimento di Arese (NdR. Inaugurato nel 1963), la cui estensione superava di otto volte la superficie del Portello (NdR. E sarebbero stati per molti anni i più grandi, moderni ed altamente tecnicizzati d’Europa).
“Ormai, l’Alfa aveva nettamente sostituito la Lancia al secondo posto fra le case automobilistiche italiane: restava, naturalmente, una casa di nicchia che, tuttavia, doveva confrontarsi con dimensioni del tutto inusitate rispetto al passato. Fra il 1954 e il 1959 si costruirono 100.000 esemplari della Giulietta, mentre, nei primi quarantacinque anni di attività della società milanese erano uscite dai suoi impianti appena 33.500 automobili. Il salto quantitativo dette quindi origine a una forte pressione per il cambiamento delle strutture aziendali esigendo una diversa qualità gestionale e organizzativa. Si imposero la costruzione di nuovi impianti alla giusta dimensione di scala, il rinnovo dei macchinari, in particolare per lo stampaggio, la saldatura e l’assemblaggio, il mutamento dell’organizzazione del lavoro, così da eliminare ogni ostacolo alla fluidità del processo produttivo. Impressiona la crescita del capitale fisso: da poco più di 3 milioni per dipendente nel 1958, a quasi 11 milioni otto anni dopo. Per evitare il rischio di una contemporanea forte ascesa dei costi unitari, la dirigenza fu costretta a mantenere un costante collegamento con il mercato, riformando in profondità l’organizzazione commerciale. Anche una casa di nicchia entrava, quindi, in una prospettiva ‘fordista’, da seconda rivoluzione industriale, che non consentiva più il riferimento a una domanda composta di poche migliaia di affezionati intenditori, ma richiedeva la capacità di coniugare strategia di differenziazione e produzione di massa” (F. Amatori, 1996).
Cosa era e cosa ha fatto l’IRI in Italia e per l’Italia, quando questa era ancora un grande paese…
L’IRI è stato senza dubbio uno dei protagonisti di quella stagione straordinaria che è stata definita miracolo economico. Il management dell’Istituto e l’alta dirigenza del Ministero dell’Industria erano formati da figure di grandi capacità e professionalità. Uno di essi, il responsabile delle Relazioni Esterne dell’Istituto, dr. Franco Schepis, scriveva alla fine degli anni Sessanta:
Un turista straniero arriva in Italia con un aereo dell’Alitalia? Alitalia è la compagnia aerea dell’Iri. Sbarca a Genova da uno dei più bei transatlantici del mondo come la Michelangelo o la Raffaello, la Cristoforo Colombo o la Leonardo da Vinci? Sono dell’Iri. Noleggia una macchina veloce ed elegante come un’Alfa Romeo? È dell’Iri. Per uscire da Genova percorre la prima strada sopraelevata costruita in Italia? È dell’Iri, ed è stata realizzata con l’acciaio della Finsider (Iri) e il cemento della Cementir (Iri). Uscito dalla città prende un’autostrada della più estesa rete esistente in Europa? È dell’Iri. Si ferma per pranzare in un autogrill? È dell’Iri. Assaggia i prodotti della Motta e dell’Alemagna? Sono aziende Iri. Dopo pranzo, telefona a qualcuno della sua città, usando la prima teleselezione integrale da utente del continente? È una linea della Sip, cioè dell’Iri. Arrivato a destinazione, deve cambiare della valuta? Va in una delle principali banche italiane (la Banca Commerciale Italiana o il Banco di Roma o il Credito Italiano)? È anch’essa dell’Iri.
(Amatori, in Storia dell’Iri, 2° vol., 2012, p. 4).
In quest’apologo c’è la chiara percezione di che cosa rappresentasse l’IRI al culmine del suo successo. Questo fu reso possibile dal disegno organizzativo ideato da Alberto Beneduce (1887-1944. Cfr. Treccani) e richiamato all’inizio di questo “racconto”, che prevedeva la proprietà pubblica insieme a uno stile imprenditoriale e manageriale privato, oltre a soci di minoranza che, attratti da ottimi ritorni, dessero fiducia allo Stato non facendo mancare il loro supporto finanziario. Restava un interrogativo, che riguardava la natura e la lealtà dello Stato in Italia. Sorto frettolosamente alla metà dell’Ottocento, era stato costretto a darsi una struttura accentrata che si era sovrapposta a una società divisa e frammentata. Era inevitabile che intervenisse la mediazione politica, con tutta la sua carica di discrezionalità. Non bisogna dimenticare che l’IRI aveva un padrone – lo Stato, appunto – e che questo significava ricondurre la sua attività all’iniziativa politica. Quando le circostanze inducevano a un controllo più stretto da parte di chi poteva esercitare i diritti di proprietà, l’IRI, pur con le sue eccellenti capacità organizzative e la sua carica d’innovazione, entrava in crisi. Ciò avvenne negli anni Settanta, quando la rarefazione di risorse finanziarie si fece sentire. Nel periodo qui considerato, invece, i rapporti fra la politica e il management furono complessivamente buoni.
Negli anni del fascismo, il regime totalitario non aveva bisogno delle imprese dell’IRI per ottenere consenso. Fu quindi possibile per Mussolini porre a capo delle aziende o delle finanziarie pubbliche manager scelti per la loro professionalità e non per ragioni di appartenenza politica. Dopo la guerra, una classe dirigente ‘distratta’ dalle vicende della ricostruzione applicò nei confronti dell’IRI una ‘negligenza benigna’. Ebbero così spazio uomini come Oscar Sinigaglia, Giuseppe Luraghi, Fedele Cova, Guglielmo Reiss Romoli, Carlo Calosi. Le cose cominciarono a cambiare nel 1956, quando venne istituito il Ministero delle Partecipazioni Statali (PP.SS).
Prima di allora, il sistema delle imprese pubbliche appariva come una piramide rovesciata. Per prime venivano le aziende, poi le finanziarie e, quindi, la super holding IRI. Questa era la condizione basilare perché agissero le ‘mani adatte’ perché una tecnocrazia efficiente e brillante producesse innovazione ad alto livello. Con il Ministero si realizzava invece una catena di comando che vedeva prevalere i politici. Sempre più si posero all’Istituto obiettivi extraaziendali, vincoli di localizzazione severi come quelli imposti dalla legge 634 del 1957, secondo la quale l’IRI doveva collocare il 60% dei nuovi investimenti e il 40% di quelli complessivi nel Meridione. Questi vincoli avrebbero potuto essere sopportabili se fossero stati orientati verso obiettivi di razionalità produttiva, come nel caso dello stabilimento di Taranto, per il quale un management assai selezionato prevedeva la fabbricazione di grandi tubature per metanodotti e di lamiere per navi, vale a dire prodotti ad alto valore aggiunto. Si preferì, per motivi di consenso politico, puntare sulle produzioni di massa. Il management subì allora l’iniziativa dei partiti e dei sindacati: alla fine, poté solo ‘navigare a vista’.
Cfr. Bibliografia
“L’Istituto per la Ricostruzione Industriale – Iri. Elementi per la sua storia dalle origini al 1982”, a cura di V.A. Marsan, documento interno Iri, Roma 1998.
Stefano d’Amico
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