Sicilia & siciliani
Federico II di Svevia fu un sovrano così illuminato che lo definirono “stupor mundi” e da re di Sicilia, nel XIII secolo, declamava che non invidiava a Dio il Paradiso perché era ben soddisfatto di vivere in Sicilia. La terra dove tutto ebbe inizio, là dove Guy de Maupassant, in viaggio nel Mediterraneo con il suo yacht “Bel Ami”, parlò di un “paesaggio dove si trova tutto ciò che sembra creato sulla terra per sedurre gli occhi, la mente, la fantasia”. Una terra affascinante quindi, un’orgia di colori e di profumi, che la natura ha reso ricca e l’uomo ha reso povera; sono uomini diversi i siciliani, un popolo antico dalla storia assai intensa e dal carattere davvero particolare; ecco i Siciliani.
Si, ma chi sono veramente i siciliani? Uomini di mare e di fuoco. Uomini così diversi e così lontani dagli altri; lontani persino, anche oggi, dai loro vicini, dagli “altri” italiani, quelli del continente, quelli del tricolore. La bandiera della Sicilia, forse la più antica del mondo, è infatti quella rossa e gialla con al centro la Triscèle o più nota Trinacria, quella che animò la Rivoluzione del Vespro e dei vari locali moti indipendentisti.
I Siciliani. Uomini così assenti eppure così presenti, lì a vivere pigri in una terra che fu amata dagli déi, che ne fecero alcova dei loro amori, e desiderata dai mortali che ne fecero un campo di battaglia, una terra dove appunto tutto ebbe inizio. A cominciare dallo splendore.
Sono inquilini della storia i siciliani, vivono nella storia e nel mito i siciliani, in terre aride quanto feconde, dove è realmente passata la memoria dei tempi; ma non se ne accorgono, né vogliono accorgersene pur portando dentro quell’antico orgoglioso silente retaggio.
Questo apparente disinteresse, che Leonardo Sciascia definiva “invisibilità dell’evidente”, colpisce invero chiunque conviva con intorno qualcosa di straordinario fascino e non se ne accorge nemmeno. Io stesso mi son visto per anni, uomo di Roma da sempre, a passare indifferente per i Fori Imperiali o il Colosseo dandoli per scontati e tornare, ora che ne sono lontano, a desiderarli affamato e ad ammirarli stupito, con meraviglia e nostalgia.
Ma laggiù siamo in Sicilia, là dove appunto tutto è cominciato, come sosteneva Goethe; ben prima di Roma; lì dove c’è “la chiave di tutto”, e non puoi conoscere l’Europa se non conosci la Sicilia.
Vitaliano Brancati, grande amico di mio padre, sosteneva al contrario che “l’Europa, che comincia da nord con fiumi gelati e popoli dal pensiero lucido e senza vertigini, dopo il gran salto delle Alpi, si ingolfa, da questa parte, nel Mediterraneo e finisce lentamente in Sicilia. L’Europa che finisce, ecco la Sicilia”.
Altri siciliani, ma non solo, invece sostengono il contrario: ecco la Sicilia, da dove comincia l’Europa, esattamente lì da dove un tempo approdarono le civiltà del Mediterraneo facendo grande quest’isola, grande di cultura e di bellezza. Approdarono proprio su quelle spiagge candide dove oggi, invece, approdano ogni giorno centinaia di migranti, senza patria e senza dio, che ne distruggeranno ogni antico retaggio e raffinato sapere. E non solo in Sicilia…
C’è un po’ di estrosa pazzia nei siciliani dovuta, come di nuovo diceva Brancati, a quell’indomito spirito greco che ancora in loro sopravvive malgrado l’ingresso di elementi arabi, normanni, svevi, spagnoli, napoletani, garibaldini e italiani e comunque resteranno sempre, nel loro intimo, fieri, orgogliosi e indipendentisti. Hanno addosso una pazzia poetica, disperata ed eroica come quella del principe di Salina o di Salvatore Giuliano. Una forma strana di pazzia che è divenuta dramma per questa gente condannata nei tempi a rinnegare o rivedere il proprio passato e accettare un presente assai pesante. Gente ciclicamente e inesorabilmente costretta a essere sopraffatta dall’unico talento che ha sempre caratterizzato l’uomo, fare violenza. Da tremila anni.
Don Fabrizio Gerbèra, principe di Salina, meglio noto come il Gattopardo dal simbolo delle sue insegne, l’affascinante e profondo personaggio protagonista dell’omonimo libro, capolavoro di Giuseppe Tomasi, spiegava con molto distacco all’inviato di Cavour, che gli offriva un seggio al Senato del neocostituito Regno d’Italia, che: “siamo vecchi, caro Chevalley. Molto vecchi. Sono almeno venticinque secoli che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche ed eterogenee civiltà. Tutte venute da fuori, nessuna fatta da qui. Da duemilacinquecento anni non siamo altro che una colonia. Oh, non lo dico per lagnarmi, è colpa nostra. Ma siamo molto stanchi. Svuotati, spenti dentro”.
Vive in ogni siciliano questo gene che si tramanda da secoli e sopravvive in essi formandone pensiero, caratteri e sentimenti. Quel gene antico e primigenio, al quale sono comunque intimamente legati, lo si percepisce anche entrando nelle loro grazie e persino nelle loro case. Amicizia e rispetto sono virtù sacre; come l’omertà. Le case, magari quelle più importanti, conservano i ricordi di generazioni, nelle più modeste ne percepisci l’aria antica che ancora non riesce a rinnovarsi o adeguarsi ai tempi. All’interno, reliquie ed immagini di tempi che furono e mai più torneranno ma ai quali si deve riconoscenza e compiacenza. Non si butta via nulla. Si convive con arredi, in alcuni casi vecchi di un paio di secoli, si usano ancora i corredi della nonna o della bisnonna sotto quadri e foto di antenati mai sorridenti. I siciliani non hanno Stato, diceva Sciascia, la famiglia è il loro Stato. Ecco perché anche nelle loro stesse dimore, come nel loro inconscio, tutto è conservato, a futura memoria e archivio o magari vendetta. Le storie di mafia ne sono un esempio. Mafia, Mother And Father Italian Association, dicevano in America! Sempre la famiglia.
Settecenteschi piccoli presepi o figure di santi in miniatura sotto campane di vetro, ceramiche riccamente decorate, divani e tappeti che hanno visto tempi migliori accolgono sovente l’ospite in salotti semibui, quasi ombrosi, magari con un minuscolo bicchierino di ambrato rosolio, e ti sembra che in quelle stanze ci sia ancora troppa gente; anime antiche che non se ne vogliono distaccare. Neppure esse.
Nelle rimesse adiacenti le case di campagna sono custodite tra balle di paglia e rugginosi attrezzi di ogni sorta vecchie carrozze se non vecchie automobili. Non si butta niente e non si da indietro niente. È disdicevole e niente affatto dignitoso dare indietro beni che ti sono appartenuti ed hai usato sostituendoli con altri nuovi; è come voler buttar via un tuo passato.
“Prendete un problema di qualunque natura (politico, sociale, culturale, tecnico o altro) e datelo da risolvere a due italiani: uno milanese e l’altro siciliano. Dopo un giorno il siciliano avrà dieci idee per risolvere questo problema, il milanese nemmeno una. Dopo due giorni il siciliano avrà cento idee per risolverlo, il milanese nessuna. Dopo tre giorni il siciliano avrà mille idee per risolvere questo problema, il milanese lo avrà già risolto”. (Giuseppe Tomasi di Lampedusa).
Agli occhi del visitatore o del turista per caso la Sicilia, però, saprà sempre offrire e garantire l’immagine del sogno, illudendolo di esserne protagonista, avvicinato alla leggenda e alla poesia (i miti) con i suoi problemi sociali, politici, umani (le storie) tutti elementi che ne compongono le tradizioni, il folklore, la spiritualità. A quel visitatore attento si aprirà infatti un’isola di incantesimi, di luce, di profumi e di sole; un sole tanto forte da abbagliare anche gli evidenti oscurantismi dei tempi presenti. E ne torni affascinato e coinvolto. Ma mai siciliano.
P.S.
Questo pensiero con le mie impressioni sui siciliani e la loro terra, maturate nel corso di una vita da siciliano a metà, mi è venuto in mente non solo grazie ai natali paterni o frequentando da sempre i numerosi parenti e antichi amici siciliani, ma soprattutto grazie al ricordo di alcune vecchie magnifiche automobili ritrovate e recuperate anni fa nei magazzini di campagna o in alcune dimore siciliane. Ho vissuto con viva emozione un paio di questi ritrovamenti. Uno in particolare.
Un vecchio amico catanese, più o meno trenta anni fa!, mi chiese di accompagnarlo a vedere una vecchia Alfa Romeo rinvenuta in una casa di campagna in via di demolizione nei pressi di Caltagirone. La segnalazione gli era arrivata da uno dei suoi segugi che amava sguinzagliare per l’isola alla ricerca non tanto di auto quanto di quadri e antiche ceramiche di cui era ed è tuttora collezionista.
Non era chiaro di che tipo di Alfa si trattasse. Il “segugio” ci disse che sembrava un carrozzone. Partimmo subito. Dentro una ex stalla semi diroccata, tra rottami e rifiuti di ogni genere, coperta da alcuni teloni spuntava il tipico radiatore di un’Alfa Romeo RL, quello piatto ma inconfondibile. I palpiti cardiaci e l’emozione divennero incontrollabili e ben visibili con viva soddisfazione del venditore. La frenesia e l’ansia di guardare, toccare, aprire erano irrefrenabili. Una RL prima serie torpedo, carrozzeria Falco, si, proprio Falco, quella vicino al Portello. Era la carrozzeria di Vittorio Ascari, fratello del campione Antonio. Una rinomata azienda che rivestiva i telai Alfa Romeo con eleganti carrozzerie poi venduta ai signori Bianchi Anderloni e Ponzoni che la rinominarono Touring!
La RL era nera, assolutamente originale, conservata e completa di tutte le sue cose, gomme incluse, ferma dal 1931 quando, sapemmo in seguito, l’antico proprietario la sostituì con una 1750 Torpedo. L’affare, con vivo compiacimento del venditore che aveva ovviamente già capito il nostro smisurato interesse e alzato il prezzo, si concluse nel giro di mezzora includendo anche una moto Bianchi degli anni ‘30 che giaceva lì accanto. Il carro attrezzi che aspettava gli eventi poco lontano caricò subito tutto e tornammo entusiasti a Catania. La notte non si dormì. La pulimmo interamente, riuscimmo a forza di braccia a far girare il motore, smontammo i sedili e …. sorpresa! Sotto il divano posteriore, in uno spazio riservato a qualche attrezzo, trovammo un sacchetto di iuta con dentro, bene avvolte in carta oleata, un centinaio di lettere legate da un nastro rosso.
Era la storia affascinante e romantica di uno struggente amore clandestino di cui forse quella vecchia Alfa fu testimone, ne sopravvisse e, probabilmente commossa dalla nostra passione per lei, ce la volle raccontare. Una storia nella storia, arrivata fino ai nostri giorni, che non mancò, neppur essa, di coinvolgerci e commuoverci … Ma la siciliana omertà o, se volete, la odierna privacy, pur dopo 90 anni, non consente di andare oltre!
Stefano d’Amico
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