Una Balilla nel deserto
Il prolungato stato di guerra Russia-Ucraina ha fatto emergere ovunque problemi gravi e insicurezze sempre più pesanti che sommati a quelli derivanti da due anni di pandemia evidenziano le debolezze del nostro paese e di un’Europa fiacca e confusa in un mondo ormai decadente e privo di ogni buon senso.
Tra i numerosi problemi spicca anche quello del gas; si discute di cosa si potrebbe o si sarebbe dovuto fare per averne a sufficienza e a prezzi ragionevoli, spesso senza neppure cognizione di causa, ma intanto i costi dell’energia aumentano, anche senza motivo, mentre il paese, pigro, rumoreggia e assiste inerte e miope. L’ENI suggerisce giustamente di far aumentare la produzione del gas algerino. Ci si poteva però pensare anche prima e pensando a prima mi sono tornati in mente i numerosi viaggi in Algeria, proprio per il gas.
Tra la fine degli anni ‘70 e gli inizi degli ‘80 l’ENI insieme alla Sonatrach, azienda di stato algerina per l’energia, diedero vita a un’impresa straordinaria, la costruzione del Transmed (Trans Mediterranean Pipeline). Un imponente gasdotto di circa 2.300 km., che partendo dai giacimenti di Hassi R’Mel, in pieno deserto algerino, attraversa la Tunisia e dalla punta estrema di Capo Bon si immerge nel Mediterraneo, nel Canale di Sicilia, fino a Mazara del Vallo. Passa quindi sotto lo Stretto di Messina, attraversa l’Italia, e arriva a Minerbio, in provincia di Bologna, per lo stoccaggio e la distribuzione sul territorio.
La Fincantieri costruì per l’ENI-Saipem un’apposita nave speciale semisommergibile, la Castoro 6, varata a Trieste nel 1978, che in ciclo di bava continua saldava e posava sul fondo marino gli enormi tubi per il gas mantenendo sempre la esatta posizione sul fondo del mare secondo un avanzatissimo sistema di controllo di rotta e di ancoraggio in acque profonde. Eccellenze d’Italia in tempi che furono.
La premessa era necessaria per introdurre la mia avventura.
Mi recai varie volte in Algeria, inviato dall’ENI, di cui ero dipendente, per i necessari rapporti con le Autorità locali. E la prima volta, credo nel 1980, fui spedito proprio ad Hassi R’Mell. Scesi con l’aereo ad Algeri e insieme al residente ENI locale decidemmo, da bravi giovani con poco cervello, di fare il tragitto in auto (circa 700 km) con la Fiat Argenta ufficiale di colore blu, ottima per il caldo africano!, piuttosto che con l’aereo aziendale. Scegliemmo un mezzo proprio adatto per il deserto, ma l’entusiasmo era tanto!
Facemmo scorta di qualche provvista, acqua, carburante … e si partì, ovviamente senza telefoni cellulari che neppure esistevano.
Dovevamo percorrere la Trans-Sahara, e già il nome mi evocava oasi e carovane di touareg, fino a Ghardaya per poi raggiungere la base ENI di estrazione ad Hassi R’Mell. Mbè! Fu un’esperienza un po’ avventata ma meravigliosa, lungo caratteristici ma miserrimi paesi e poveri villaggi magrebini, palmeti e oasi rigogliose con varie carovane di cammelli e camion enormi lungo le piste.
A circa 60 km da Algeri su una strada montuosa ci fermammo in cima a un valico abitato o meglio infestato da una moltitudine di scimmie fameliche che non si levarono di torno finché non iniziammo a lanciargli addosso pezzi di pane o alcune mele. Si cominciava bene!
Altra sosta poi in pieno deserto per prendere alcune belle rose e quindi a Djelfa, una cittadina nota per il gran mercato e gli scambi con le tribù nomadi di touareg, gli uomini blu, per il colore delle loro vesti. Barattammo con loro sigarette e oggetti promozionali, che avevamo sempre pronti, in cambio di alcuni bei pentolini di lamiera sbalzata a mano per fare il the.
Pietre di Rose del Deserto
La nostra Fiat Argenta che andava alla grande, pur con aria condizionata a mezza forza, faceva sempre un gran figurone e ammorbidiva, forse considerato l’insolito colore, la tradizionale ritrosia di quelle genti.
Pernottammo (vestiti) in un indescrivibile auberge, o meglio una stamberge, per poi proseguire l’indomani fino a Ghardaja.
Una piccola meravigliosa e millenaria cittadina fortificata sorta su alcune colline, di un colore giallo ocra quasi abbagliante, costruita con sabbia e argilla ma ancora solida e fitta di abitazioni terrazzate con un numero enorme di minareti a svettare tra strette viuzze, il tutto racchiuso da muraglioni medioevali imponenti. L’ingresso era consentito solo attraverso un arco sovrastante una enorme porta di legno che chiudeva i suoi battenti al tramonto. Vicino ad essa un chiosco, si fa per dire, ove ci rifocillammo con datteri squisiti accompagnati dal tradizionale the con foglie di menta, sempre circondati dai curiosi e questuanti locali. Direte … si, tutto interessante, ma che c’entra la Balilla del titolo? C’entra, c’entra! Anzi, ci stavo per entrare pure io.
Il suono rauco di un clacson stonato e piuttosto spompato aveva aperto un varco tra i curiosi e fece spuntare, come un miraggio, il muso inconfondibile di una Fiat Balilla. Pensai subito che il sole mi avesse dato alla testa o forse che era un catorcio francese dalle sembianze nostrane. Macchè. Era proprio una Fiat 508 Balilla, c’era pure scritto sul radiatore, con i parafanghi bianchi e il resto forse un tempo rosso bordeaux. Forse.
Era piuttosto scassata e ammaccata ovunque e quei fari enormi sembravano guardarmi stanchi … mi commossi un po’ e fui confortato dal brontolio italiano del motore, che girava ancora bene. Un glorioso e storico pezzo d’Italia in mezzo al Sahara. Ma come c’era finito? Invitammo l’autista, un anziano berbero con solo un paio di denti, a bere il the con noi. Con il mio collega, che parlava un arabo fluentissimo, si fecero una chiacchierata lunga e incomprensibile di cui riuscivo ad afferrare solo qualcosa. Ma io volevo sapere della Fiat, non della sua vita.
L’omino, dall’odore un po’ pesante, intabarrato nel suo burnus sudicio, alimentato a the e sigarette, ci raccontò che era stato l’autista di un ricco mercante francese, proprietario originario della vettura cui era molto affezionato, tanto che se l’era portata dietro da Marsiglia. Questo monsieur francese aveva una casa anche a Ghardaja per il commercio di datteri e carote (specialità locali superbe), diceva il vecchio, e non solo non era un buon uomo ma anche antipatico ed era anche, sempre secondo lui, una spia dei pieds noirs, i cittadini francesi residenti in Algeria. E così il sudicio vecchio, che era stato un membro del FLN (Front de Libèration Nationale), un bel giorno del 1960, in piena rivoluzione, gli sparò al petto; ci fece pure il segno della pistola con le dita e disse … bum!!
Ero rimasto senza parole e lo stupore si trasformò in … un altro sentimento.
In conclusione si tenne la Balilla, la casa del francese e persino la vedova, una donna algerina, di Orano. Chissà poi se i due erano d’accordo…! Penso sicuramente. Per la patriottica azione ricevette una medaglia e tre cammelli. Orgoglioso e fiero, ci volle mostrare anche il segno del proiettile che, fuoriuscito dal corpo del poveretto, si piantò sullo sportello destro. Si offese molto perché non volli salire con lui a fare un giro con la “sua” Balilla.
Ci andò invece il collega, assai indifferente e coraggioso, mentre io rimasi di guardia vicino alla nostra Argenta per evitare, nel migliore dei casi, di trovarla vuota o di tornare … con altri mezzi, meno comunque che con quella Balilla del deserto.
Una bella Balilla, anch’essa bordeaux ma nei pressi di Modena.
Stefano d’Amico
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