Una vita da cani
Carlo Chiti era un personaggio straordinario, dal punto di vista professionale certo ma anche umano. Giovane ingegnere aeronautico iniziò a lavorare nel reparto corse Alfa Romeo nel 1952 e fu subito messo dal Direttore Giuseppe Busso a sviluppare il progetto della 750 Competizione, coadiuvato dal collaudatore Bruno Bonini, quindi lo sviluppo della 6C 3000 CM Competizione e della 2000 Sportiva. E come lui stesso amava ricordare contribuì non poco anche allo studio e al progetto di un impegno sportivo della Giulietta.
Nel 1957, allettato da uno stipendio migliore, accettò l’offerta di Enzo Ferrari cui era stato presentato da Giotto Bizzarrini, altro toscano verace e geniale. Grazie al loro contributo la Ferrari vinse due titoli mondiali F1 nel 1958 (Mike Hawthorn) e nel 1961 (Phill Hill). Lasciò la Ferrari nel novembre 1961 a seguito del famoso abbandono per dimissioni degli otto dirigenti della SEFAC Ferrari insieme allo stesso Bizzarrini, Tavoni e altri; la storia dice per dissidi interni animati dalle intemperanze della moglie di Ferrari, Laura.
Bizzarini si mise a fare il costruttore (ricordate la stupenda 5300 Strada?) e Chiti se ne andò per un breve periodo all’ATS per la realizzazione di una moderna vettura di F1, poi, nel 1964, fondò a Udine l’Autodelta insieme a Ludovico Chizzola per rientrare poco dopo, grazie al Presidente Luraghi, ufficialmente in Alfa Romeo che aveva rilevato la stessa Autodelta, divenuta nel frattempo il braccio sportivo della Casa milanese da dove uscirono non solo vetture da corsa e successi strepitosi in ogni parte del mondo, ma anche le avventure e le storie di tanti… cani. Si, avete capito bene, proprio cani! Alcuni dalle storie piuttosto infelici. Tutti “animali” questi dalla spiccata personalità, molti randagi e costantemente accanto a lui; erano il Sansone, la fedele Orbina, la Rosina, il brontolone Omero, …e circa altre 70 fortunate bestiole che trovarono rifugio e amore in un apposito reparto loro dedicato adiacente quello sportivo, ma alcuni, i più amati, giravano tranquillamente anche per l’officina, accompagnati spesso (Chiti non presente) dai più incredibili ma bonari “sacramenti” lombardi dei meccanici che, pur infastiditi da pipi e leccate, erano però sempre pronti a tirar fuori dalle tasche un bocconcino per loro.
Conobbi il Chiti verso la fine degli anni ’60 o nei primi anni ’70, non ricordo esattamente, accompagnando Franco Angelini, famoso preparatore romano di Alfa Romeo, a Settimo Milanese per l’acquisto di alcuni pezzi speciali e ricambi vari. Entrai nella Autodelta, il già mitico reparto corse Alfa Romeo, con grande curiosità e riverenza ma capii subito di essere entrato in un ambiente assai diverso da quello che mi aspettavo. Un pastore tedesco e un labrador piuttosto spelacchiato ci vennero subito incontro scodinzolando e annusandoci ovunque, felici delle mie carezze ma piuttosto offesi da un “nun rompete li cojo…” rivolto in puro romanesco da Franco.
Manfredini, il capo officina, abituato a queste situazioni e fedelissimo di Chiti, sorrise bonario e paziente e ci accompagnò dall’ingegnere. Ci accolse sulla porta con un sonoro “o bischero!”, rivolto a Angelini, “i che tu voi?”. Devo riconoscere che l’incontro fra questi due rivali sulle piste di mezzo mondo fu molto affettuoso e cordiale, contrariamente a quel che sostiene la vulgata ignorante. Il parlar toscano, elegante e ironico del Chiti faceva da enorme contrasto con il “romanesco” greve e incalzante di Angelini. Ma per me fu uno spasso. I due si stuzzicavano e si prendevano in giro con una arguzia notevole che nascondeva però una reciproca grande stima. L’ufficio aveva un che di vecchio e pesante, contrariamente allo spirito di Chiti. Ci disse che i mobili dell’ufficio, cui era molto affezionato, erano del padre. Mentre si alzava dalla poltrona per farci vedere appunto alcuni testi del padre nella libreria, fece capolino dalla tasca della sua giacca, direi piuttosto una mezza vestaglia, la testa di una specie di topo con due occhi enormi, che invece si rivelò poi essere un cane piccolissimo che probabilmente ci stava dormendo dentro! Al mio sguardo incuriosito il Chiti ce lo presentò subito: “i gl’è il Sansone (per me non pesava più di due etti). L’è un povero trovatello grullo, l’ho trovato solo solo vicino San Siro.”
Cominciò cosi la mia stima e l’amicizia con l’Ingegnere e la conoscenza non solo del Sansone (che morì poverino pochi mesi dopo in un incidente d’officina!) ma pochi minuti dopo anche dell’Orbina. Mentre quei due, infatti, parlavano di corse e di motori sentii un certo calore sul piede e la caviglia sinistra. Un altro cane piuttosto strano con la testa mezza nera e mezza bianca mi stava orinando sulla scarpa! Mi alzai di scatto, un po’ schifato ma subito rabbonito dal Chiti: “bono, bono o d’Amico. L’è l’Orbina, l’è cieca, poverina, e fa così solo con gli amici. Vedi ti vole già bene!” Mah??!! Non sapevo più cosa pensare e cosa dire mentre un altro cane, di razza anche lui indecifrata. entrava nel frattempo in quell’ufficio per curiosare, annusare e riandarsene via ciondolando. Ma dove eravamo finiti? Questo era veramente il raffinato e glorioso reparto corse Alfa Romeo?
Io pensavo fosse finita lì, e invece no. Mentre un’anziana signora ci portava il caffè su un vassoio di alluminio con inciso il marchio Autodelta, che seppi dopo essere stato realizzato in officina perché quello di porcellana s’era rotto, spuntò dietro di lei come per incanto anche la Rosina, detta la “rediviva”, ci disse. Chi poteva essere? Ovvio, una nuova (si fa per dire) cagnetta bianca che aveva trovato poco tempo prima sperduta, infreddolita e con un femore rotto in mezzo alla neve. Il Chiti aveva certamente notato le nostre facce non tanto spazientite quanto stupite e imbarazzate. Stavano crollando le idee che mi ero fatto dell’Autodelta. Chiti allora, come per giustificare in quell’ufficio anche la presenza della rediviva e cercare di coinvolgerci in questi drammi canini, ce ne raccontò la storia mentre io cercavo a suon di pedate di rabbonire Angelini che, pur amando anche lui i cani, non vedeva l’ora di passare ai motori e a quanto gli interessava.
Aveva poverina una placca di metallo nella zampa e poche settimane prima aveva anche subito un altro intervento… ed era morta! Ma il bravo veterinario, grande amico di Chiti, con un immediato massaggio cardiaco e una bella iniezione di adrenalina la riportò in vita e al Chiti che con uno sguardo tenerissimo e gentile, mentre commosso ce ne raccontava le vicende, le svuotò due bustine di zucchero su un foglietto di carta. “O che guardate? E’ la sua razione di zucchero. La Rosina sa che quando ricevo qualcuno di solito offro il caffè, e il caffè vuol dire zucchero. E lei che ne sente l’odore arriva, lecca e poi se ne va. Come voi tra poco!”
Quanto amore traspariva dagli occhi di quel mitico omone per questi suoi “figlioli” che, si vedeva, lo ricambiavano tutti con un sentimento ed una fedeltà così intensi che andavano ben oltre quello che ci si aspetta nei rapporti tra uomini e animali.
L’ingegnere era un uomo davvero particolare, mite, gioviale, sempre pronto ad aiutare chiunque avesse bisogno. In officina era un vero capo, solido (in tutti i sensi) amato e rispettato, urlava e diceva colorite parolacce toscane, di cui ne utilizzava un bel repertorio, ma guai se qualcuno dell’Alfa (Direzione Personale o Esperienze) o nel corso di gare insultava o se la prendeva con uno dei suoi. Diventava una furia. Ne sono stato testimone. Ma per i cani aveva una passione ed un amore che lo hanno accompagnato per una vita intera e facevano proprio parte del suo essere. In essi trovava e ricambiava effusioni e tenerezze, in casa e in officina, e si doleva perché non esistevano sufficienti associazioni per la protezione e la cura dei cani randagi o abbandonati e comunque degli animali in genere. Lui stesso aveva creato, promosso e sponsorizzato varie iniziative cinofile con l’aiuto di alcuni amici veterinari e galantuomini che lo appoggiavano e lo aiutavano gratuitamente. La sua stessa famiglia, la moglie Lina e i figli, condividevano la loro casa con vari cani, gatti (un siamese si chiamava Falpalà e un altro Melchiorre perché fu trovato a Natale!) e tre criceti (cui il Chiti mangiava persino i loro biscottini!).
Carlo Chiti fu un uomo che riuscì a vivere i periodi più esaltanti della storia dell’automobilismo sportivo realizzando le sue passioni più intense: i cani e i motori. E poiché sosteneva che i cani son tutti brave persone, si può ben dire che questo geniale toscanaccio ha fatto proprio una vita da cani regalando a noi entusiasmi e a loro umanità e amore. Basta vedere la luce e la gioia dei suoi occhi nelle foto con loro.
Stefano d’Amico
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